Il Prof Vogt e i suoi celebri studi sul cervello di Lenin

Il Prof Schiffer scrive in difesa del suo maestro

Il Centro di Neuro-Bio-Oncologia è nato come un Centro di Ricerca all’interfacies fra le Neuroscienze e l’Oncologia e chi è stato chiamato a dirigerlo proveniva dalla Neuroscienze Universitarie, anche se versato ed esperto nella patologia dei tumori cerebrali. È pertanto stato ovvio che l’attività del Centro risentisse di questa doppia natura e si estendesse ai confini delle Neuroscienze, là dove queste intersecano l’antropologia, la neuro-psicologia, la semiotica e le discipline umanistiche. L’istituzione stessa del Centro, doveva rispondere alla volontà dell’Istituzione di andare oltre l’assistenza sanitaria, ancorché di prim’ordine, per misurarsi nell’agone scientifico, e perché no, internazionale. Su una testata nazionale era apparso un articolo a firma di Elena Dusi che illustrava una recente osservazione sul cervello di Einstein e su alcune particolarità anatomiche che potevano giustificare il genio. Uno studio simile, dice la giornalista, era stato fatto negli anni trenta del secolo scorso sul cervello di Lenin da parte del prof. Oscar Vogt, sommo neurologo e neuropatologo tedesco. In entrambi i casi, si era trattato di trovare un corrispettivo anatomico al genio.

L’articolo si dilungava sul mistero che aleggiò sempre sull’effettivo referto dell’esame istopatologico nel caso di Lenin, ma concludeva dicendo che il prof. Vogt pur essendo stato chiamato a Mosca dai sovietici dove aveva lavorato per due anni allo studio del cervello di Lenin, non aveva disdegnato poi di lavorare nella Germania nazista. Il Direttore del Centro, Prof. Davide Schiffer, alla fine degli anni ’50 del secolo scorso, giovanissimo laureato, aveva lavorato in Germania con il Prof. Vogt. e, conoscendo bene le sue vicissitudini di vita, si è sentito in dovere di difendere il suo Maestro e ha scritto una lettera alla sig.ra Dusi e alla testata che ha publicato l'articolo per rettificare l’informazione che il prof. Vogt fosse stato prono al nazismo in quell’epoca. La lettera è stata pubblicata su Torinomedica, organo ufficiale dell’Ordine dei Medici o Odontoiatri della provincia di Torino.
La lettera, per la cui riproduzione ringraziamo il Capo-redattore dr. Nicola Ferraro è stata la seguente:


ALLA REDAZIONE DI TORINOMEDICA
Mi permetto di inviare a codesta Redazione un’osservazione in merito al bellissimo articolo di Elena Dusi sul cervello di Einstein. Dico bellissimo perché solleva un problema di portata gigantesca in quanto tocca l’annosa questione del rapporto mente/cervello che in ambito non scientifico è ancora discusso in termini di contrapposizione fra riduzionismo e anti-riduzionismo. Scientificamente oggi la contrapposizione non ha senso e non vi sono dubbi sull’essere quella che chiamiamo “mente” un’espressione del cervello: ne fanno fede il rapporto fra la complicatezza del cervello e lo sviluppo della “mente” nella filogenesi e le modificazioni organiche che l’apprendimento induce nel cervello. Il grande Eric Kandel ha dimostrato che mentre la memoria a breve termine induce modificazioni funzionali nel cervello, quella a lungo termine ne induce di anatomiche (modificazioni delle sinapsi).
D’altronde, l’indagine anatomo-clinica degli ultimi duecento anni ha dimostrato che una lesione del cervello comporta una sintomatologia neuro-psichica.

Va però rilevato che oggi un rapporto diretto fra psiche ed anatomia del cervello all’infuori della patologia non è accettato senza discussione; rilevato con la mediazione della Risonanza Magnetica, esso coinvolge il concetto di coscienza su cui il dibattito è più che mai acceso. E’ difficile accettare che siano l’anatomia o l’istologia a spiegarci la funzione psichica perché troppo grossolane e soggette a grande variabilità individuale; questo spiega lo scetticismo con cui sono state accolte le osservazioni di Dean Falk sulle anomalie riscontrate del cervello di Einstein, così bene illustrate da Elena Dusi. In questo rapporto tendiamo invece a privilegiare la base molecolare o ultrastrutturale.
Se non che, in realtà il punto di incontro fra il biologico e la soggettività, come dice Kandel, e cioè fra l’atto neurale e l’atto mentale non è o non è ancora conosciuto.
L’oggetto delle mie osservazioni tuttavia non è il cervello di Einstein, ma semmai quello di Lenin e indirettamente l’operato di Oskar Vogt che lo esaminò all’autopsia negli anni venti del secolo scorso.
Discutendo la vicenda, ancora in parte misteriosa, del cervello di Lenin e il suo studio da parte del professor Vogt, Elena Dusi riferisce le conclusioni di questo studio secondo cui Lenin era un “atleta del pensiero associativo”; dice anche – e questo è il passo che ha attirato la mia attenzione – che “qualche anno più tardi Vogt non aveva disdegnato di lavorare sotto al regime nazista.”
All’inizio della mia carriera di neurologo/neuropatologo sono stato allievo del prof. Vogt e ho lavorato nel suo Istituto di Neustadt/Schwarzwald.
Conosco bene pertanto la storia del grande studioso del sistema nervoso, morto nel 1955 e perseguitato dal regime di Hitler. In memoria del famoso personaggio e maestro e grato per la benevolenza avuta nei miei confronti quando allora, negli anni cinquanta del secolo scorso, giovanissimo studente post-laurea della Neuropatologia tedesca, fui invitato a lavorare nel suo famoso Istituto.

Non posso pertanto sottrarmi al dovere di fare alcune precisazioni circa i suoi rapporti con il nazionalsocialismo. Oskar Vogt era molto noto al passaggio fra i secoli XIX e XX nell’alta società tedesca, all’epoca del Kaiser Guglielmo, per i suoi studi di anatomia del cervello e anche per occuparsi di ipnosi, com’era di moda in quell’epoca. Era medico di famiglia del barone Alfred Krupp di cui, si dice, abbia goduto di finanziamenti per la ricerca. Lenin morì per un ictus nel 1923 e Vogt fu chiamato a Mosca per esaminarne il cervello in quanto uno dei maggiori esponenti della neuropsichiatria tedesca e cultore di Neuroanatomia. Lenin si era ammalato per un infarto cerebrale ed erano già stati consultati famosi neurologi dell’epoca, come Nonne, Bumke, Foerster, Henschen, Strümpell. Vogt rimase alcuni anni a Mosca nel famoso Istituto per le Ricerche sul Cervello, dove condusse un esame approfondito del cervello facendone più di trentamila sezioni. La conclusione nel 1925 fu: “nel III strato corticale, specie nella parte profonda di molte aree cerebrali, ho trovato neuroni piramidali di straordinaria grandezza e numero, mai visti prima da me. Il reperto anatomico ci permette di identificare Lenin come un atleta del cervello e un gigante delle associazioni”. Questo è quanto il mondo scientifico seppe del cervello di Lenin, come risulta bene dall’articolo di Kreutzberg, Klatzo e Kleihues “Oskar and Cécile Vogt, Lenin’s brain and Bumble-Bees of the Black Forest” comparso su Brain Pathology nel 1992. Come dirà poi Spengler nel libro “Lenin Hirn” (Rowolt Verlag, Hamburg-Reinbeck, 199), Lenin era affetto da neurosifilide, ma la notizia non era trapelò per proteggere la sua immagine. Sicuramente si trattava di una demenza multiinfartuale. Il mistero sta nel fatto che nessuno conobbe mai per intero il referto di Vogt sul famoso cervello. Nel mio soggiorno presso il suo Istituto glielo chiesi direttamente, ma non mi disse altro che quello sopra riportato.

Poiché tutto il materiale elaborato si trova presso l’Istituto di Ricerche sul cervello di Mosca, un suo esame retrospettivo condotto con tecniche moderne potrebbe dare una risposta più precisa. Comunque Vogt ricevette come compenso un milione di rubli che, al suo ritorno in Germania, lasciò in Unione Sovietica e di cui dopo la guerra usò gli interessi per il funzionamento del suo nuovo Istituto di Ricerche sul cervello a Neustadt, come dirò. Vogt era un uomo dalle grandi intuizioni e costruzioni teoriche sul funzionamento del cervello, di cui la Patoclisi fu l’emblema. Fin dal 1919 dirigeva a Berlin-Buch il grande Istituto Kaiser Wilhelm per le ricerche sul cervello, dove lavoravano sessanta fra assistenti e tecnici e dove Berger svilupperà per primo l’elettroencefalografia.

Aveva forti sentimenti anti-nazisti che si acuirono quando con le leggi di Norimberga dovette licenziare scienziati ebrei di grande rinomanza come Rose e Bielschowky. Racconta Klatzo, suo allievo dopo la guerra (intervista a Klatzo :”If you had met him, you would know” su Brain Pathology, 1992), che Vogt addirittura aveva nascosto e sottratto all’arresto due ebrei; uno era editore di un famoso giornale tedesco e l’altro era un medico polacco. Questo aggravò i suoi dissapori con i nazisti e un bel giorno arrivò all’Istituto una squadra di nazi con a capo Goebbels per arrestare i due ebrei. Sulla scala di accesso all’Istituto, il grande Vogt, piccolino di statura, si oppose all’ingresso della squadraccia; vi fu un alterco verbale e si venne alle mani con la spinta di Goebbels giù per le scale. Non venne spedito a Dachau per la sua grande notorietà internazionale – aveva una trentina di lauree honoris causa.
Si arrivò ad un compromesso per cui nel 1926 dovette lasciare il grande istituto berlinese per un istituto molto più piccolo, confinato nella Foresta Nera: lo Hirnforschungsintitut di Neurstadt, quello appunto frequentato da me negli anni cinquanta.

La storia però non finì lì. Vogt, avviandosi verso i settant’anni, fu richiamato militare e per ritorsione e per schernirlo fu inviato ai campi di addestramento a fare i duri esercizi delle reclute. Ho visto sul suo tavolo di lavoro a Neustadt una sua fotografia in divisa da recluta tedesca, goffamente sull’attenti con il suo tipico pizzetto bianco e la bustina rigida in testa, alla Marmittone. Dopo tre mesi fu rimandato a casa. Fedele compagna fu la moglie, Cècile Vogt, di Annecy che aveva conosciuto a Parigi durante un soggiorno presso i laboratori di Lhermitte, il grande neuropatologo francese. La Cècile partecipò alle ricerche di Vogt e anzi ne fu la guida logica, lasciando a lui spaziare nei cieli delle teorie e delle ipotesi. A suo nome va la descrizione dello status marmoratus e dismielinisatus che i neurologi di tutto il mondo conoscono molto bene.

La grande teoria di Vogt fu la “Patoclisi” che vedeva il cervello caratterizzato da una sensibilità e vulnerabilità differenziata nelle sue varie aree, cosicché le stesse cause patogene potevano avere effetti diversi agendo su aree diverse. Questo concetto non fu accettato da tutti e uno dei maggiori critici fu Spielmeyer che sosteneva la base vascolare di molte malattie, ma trionfò negli anni cinquanta e sessanta.
Oggi non è più nel vocabolario neuroscientifico, ma potrebbe tuttavia ancora trovare conferme nelle moderne vedute su neurotrasmettitori, recettori, aminoacidi eccitatori etc.

Un ultimo aneddoto. Quando arrivai all’Istituto di Neustadt, invitato dallo stesso Vogt a lavorare con lui, Vogt aveva 84 anni e Cécile 77. Durante il mio colloquio all’ingresso nell’Istituto, Vogt mi chiese a bruciapelo di che religione fossi. Mi rifiutai di rispondere e – non conoscendolo ancora – pensai che si ricominciasse tutto daccapo. Mi disse che era per l’otto per mille che le tasse riservavano alle religioni e mi raccontò la sua lunga storia. Il giorno in cui lasciai Neustadt per rientrare in Italia, la Cécile, che aveva per me una predilezione in quanto piemontese e quindi affine ai savoiardi, mi disse: “retournez; on vous attendrai.” Vogt lavorò senza dubbio durante il regime nazista; anzi il regime si instaurò in Germania proprio mentre lui dirigeva già il Kaiser Wilhelm Institut. Con l’avvento delle leggi razziali molti professori ebrei fuggirono, ma quelli non ebrei rimasero a casa loro e molti di loro collaborarono con il regime e si resero responsabili di barbarie ai danni degli ebrei e altri disgraziati. Vogt pagò un prezzo per poter continuare a lavorare e subì un grosso ridimensionamento delle sue potenzialità.

Non morì a Dachau, come gli oppositori Saller, Kleist, Bonhoeffer e altri solo perché i nazisti non azzardarono colpire un uomo che tutto il mondo onorava. Del resto lo tennero in vita per dimostrare la loro umanità e rispetto per la cultura, così come avevano tenuto in vita fino alla fine della guerra l’ospedale ebraico di Berlino, da mostrare ai funzionari della Croce Rossa internazionale, nel più puro spirito teutone, come dice Primo Levi, il cui emblema fu l’ “Arbeit macht frei.” all’ingresso ad Auschwitz.
Grazie ancora ad Elena Dusi per aver sollevato e discusso un problema così interessante e aperto che mi dà l’occasione per ripagare i Vogt per la loro benevolenza.

I miei migliori sentimenti

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